domenica 15 dicembre 2019

Intervista con Anita Avoncelli : “Intuizioni montessoriane per la demenza. Una nuova visione di cura”

Intervista con Anita Avoncelli : “Intuizioni montessoriane per la demenza. Una nuova visione di cura” 
Scritto da Chiara Marcon Venerdì 26 Ottobre 2018 07:061

Che cosa hanno in comune il mondo degli anziani affetti da demenza, con quello dei bambini? Nel suo nuovo libro la Dottoressa Anita Avoncelli, ( nella foto a sinistra), con un’illuminante intuizione mette le basi per un nuovo metodo di “cura”, verso chi, man mano perde competenze acquisite che hanno contraddistinto la vita fino a poco prima di ammalarsi.
Persone, non più solo pazienti, dove si ha un’attenzione per la loro storia passata, e per il loro presente che deve ogni giorno insieme al personale sanitario, migliorare per garantire una degenza dignitosa e meno mortificante. Al centro non c’è solo un paziente, ma una persona, che ha bisogno non solo di cure, ma ha un bisogno più’ primario che è quello di non perdere se stesso, nella degenza. 
Il metodo Montessori, ad oggi applicato solo al mondo dei bambini, può essere applicato al mondo degli anziani, dove la cura sta proprio negli ambienti dove sono i pazienti, alle loro relazioni e al loro apprendimento, che a differenza di quello dei bambini che acquisiscono competenze per poi evolversi, quello degli anziani è l’opposto, con il conseguente decadimento e oblio. 
Anita Avoncelli, laureata in Scienze dell’Educazione a Padova, si è laureata con una tesi dell’importanza del cambiamento evolutivo della famiglia in chiave sistemica, per poi specializzarsi in mediazione familiare con consulenza tecnica d’ufficio. Per anni ha lavorato in ambito educaticativo con utenza psichiatrica e disabilita, collaborando poi con strutture che ospitano persone affette da demenza. 
Il libro è una risposta a quello che attualmente nelle corsie dei ricoveri si attua ancora poco o nulla, l’aiuto al paziente a non perdersi e le intuizioni montessoriane sono mirate a mantenere la personalità e il vissuto di una paziente, nel rispetto del suo evolversi. In quest’intervista la Dottoressa Avocelli, ci spiega che cosa sono state le sue esperienze, e le sue intuizioni in questo campo: 

1.“Intuizioni montessoriane per la demenza. Una nuova visione di cura”, ci puoi spiegare il titolo e lo sviluppo della tua opera?
Questo titolo è nato da una sensazione, ma anche da una e vera e propria volontà di dare un contributo diverso al panorama letterario che esisteva sull’argomento, attualmente scarso o addirittura inesistente. Partendo da una visione nuova di cura, che è prima di tutto un nuovo “prendersi cura” delle persone affette da demenza, questo libro e questo titolo rappresentano l’inizio di un approccio più “naturale” al mondo della demenza.
In questi anni, il tema della pedagogia e della geriatria sono stati i miei interessi di studio. Inoltre, sono sempre stata affascinata da autori come Reisberg, che ha trattato il tema della retrogenesi nel mondo dell’anziano nelle sue fasi dementigene, o come Montessori, che si è occupata delle fasi di apprendimento dell’infanzia. Il mondo del bambino e dell’anziano sono state le mie “palestre” e queste due realtà mi sono subito apparse molto più simili che diverse, proprio per le modalità in cui si presentano. È divenuto automatico e naturale cogliere le similitudini, anche se i percorsi dell’anziano e del bambino vanno in direzioni opposte, verso il decadimento da una parte, verso la progressione e l’acquisizione dall’altra.
Il Metodo di Montessori può divenire un modello funzionale ad entrambi i mondi perché parte dall’attenzione alla relazione, dalla cura degli ambienti, dall’apprendimento. Il libro si inserisce come una possibilità che, insieme a riferimenti teorici, può fornire degli esempi pratici per chi assiste le persone con demenza, ma soprattutto permette di fare delle riflessioni, che si configurano come delle nuove intuizioni sulla demenza, sui possibili percorsi di assistenza da intraprendere per i nostri anziani. Anche se l’accostamento del Metodo Montessori all’anzianità non è ancora molto diffuso, qualcosa inizia a cambiare nel mondo sociosanitario e questo è il senso di questo lavoro: tentare anche di cambiare visione di cura portandola verso un approccio più umano.

2.Quanto hai impiegato alla stesura del libro e che tipo di esperienza lavorativa hai sperimentato prima di arrivare ad ipotizzare un’altra visione di cura sui pazienti anziani affetti da Alzheimer?
Erano alcuni anni che stavo lavorando a questo libro, man mano raccoglievo appunti che ordinatamente scrivevo. Ad un certo punto ho sentito l’esigenza di dargli una connotazione ben definita, perché non trovavo nulla in commercio che rispondesse alla mia idea e queste similitudini le riscontravo giornalmente. Credo che ipotesi di visioni di cura sui pazienti affetti da demenza e Alzheimer siano semplicemente nate dal mio percorso esperienziale e quindi alla fine ho messo insieme i pezzi come in un puzzle. Lavoro da quasi vent’anni in tale ambito e credo che l’esperienza diretta possa essere un potenziale importante per mettere a frutto delle possibilità di intervento.

3. Come hai messo in relazione lo sviluppo di un bambino con quello di un anziano?


È stata una scoperta fatta attraverso l’esperienza che mi ha fatto vedere questa relazione. Prima di laurearmi ho effettuato il tirocinio obbligatorio formativo presso la neuropsichiatria dell’ospedale della mia città e lì non c’erano molti studenti della mia Facoltà che sceglievano questo percorso, per cui non è stato semplice iniziare. Durante questa fase parecchio intensa mi sono avvicinata al mondo dell’approccio sistemico, attraverso lo studio della mediazione familiare e del tema del ciclo vitale, che ho inserito nella mia tesi. Mi sono laureata nel 2000 presso l’Università di Padova con un lavoro sull’educazione familiare che teneva in considerazione proprio questi aspetti. Quindi i temi dell’infanzia, delle famiglie, dell’educazione permanente e anche della prevenzione erano già nelle mie corde. Ho iniziato a lavorare quasi subito nell’ambito dell’educazione presso il vecchio ospedale psichiatrico S. Artemio di Treviso, dove la gran parte delle persone ancora ricoverate erano ormai anziane. Questa è stata per me un’esperienza fortissima ed umana allo stesso tempo. Ho portato avanti le mie riflessioni sul tema dell’infanzia, delle famiglie e, parallelamente, ogni giorno coglievo continue somiglianze più che dissonanze. Piaget (pensiamo allo sviluppo motorio del bambino) e Lewin (al pensiero dello spazio psicologico di libero movimento) già rappresentavano degli autori che apprezzavo e che in forma ancora ibrida mi stavano fornendo degli interessanti spunti di riflessione.

4. C’è una frase di Susan Santag, che citi nel tuo libro, che affermava che «la malattia è un evento che si manifesta non nel corpo, ma nella vita della persona», quindi prima di curare sostieni che è meglio sostenere…come va sostenuto l’anziano che pian piano perde ogni giorno ciò che ha acquisito?
Sento molto vicina questa frase, perché purtroppo quando sperimenti una malattia su un tuo caro, cogli la fragilità dell’esistenza e ti rendi conto che la malattia non è solo qualcosa che ti colpisce nel corpo ma è tutta la tua vita ad esserne drammaticamente sconvolta. Quindi il senso è quello di sostenere la persona non solo sotto il profilo prettamente assistenziale, ma soprattutto su quello umano e di prendersi cura anche di coloro che stanno vicino alla persona e che si trovano a vivere la malattia. Sostenere nell’ambito della demenza vuol dire soprattutto non abbandonare e non tralasciare la possibilità di intervenire, creando un ambiente che permetta di mantenere quell’identità specifica della persona, che deve restare viva e unica anche nella malattia. Le strategie operative, relazionali ed occupazionali non dovranno mai dimenticare chi è quella persona e chi è la sua famiglia.

5. Il metodo Montessori sostiene il bambino a trovare la propria via, il proprio sviluppo…l’anziano affetto da demenza che cosa deve trovare? 
L’anziano affetto da demenza non è diretto tanto a trovare un qualcosa di nuovo, quanto a tentare, per quanto possibile, a non perdere se stesso durante la malattia, perché ogni persona è molto di più della patologia, qualunque essa sia. Non è una ricerca verso una nuova identità, ma un mantenere la propria specificità, la propria identità e le proprie abilità, cioè tutte quelle peculiarità che rendono unica quella persona. Reisberg, nel descrivere la retrogenesi, affronta le tappe “involutive” che la persona affetta da demenza si trova a ripercorrere e anche la Montessori parla di tappe, seppur in chiave “evolutiva” per quel che riguarda il bambino. L’idea è che non si può pensare di chiedere ad un bambino o ad un anziano affetto da demenza delle prestazioni che non siano adeguate alla fase specifica del suo percorso. Per esempio, non si può chiedere ad un bambino di un anno e mezzo di mangiare in autonomia restando seduto e fermo per tutto il tempo, così come non si può pretendere che una persona affetta da demenza mantenga una soglia di attenzione prolungata. Si deve capire in quale fase si trova quella persona, ma soprattutto non perdere di vista chi è, quali sono le sue esperienze, quali le sue competenze, quali i suoi bisogni.

6.Ci sono delle strutture dove hai potuto sperimentare questo metodo? 
Nel mio lavoro quotidiano sto tentando di portare avanti questo approccio, sia presso una piccola comunità, dove risulta più semplice riuscire a sperimentare alcune metodologie per quanto riguarda l’ambiente a misura di casa. Poi presso una realtà più grande, una Fondazione, dove ho portato avanti esperienze educative più strutturate, affiancando il lavoro degli operatori e orientandolo secondo attività specifiche e ben strutturate. È una strada fortemente in salita, non semplice, ma credo che in questi anni ci siano più sensibilità e consapevolezza su questa malattia, pertanto una maggiore apertura anche a nuove modalità di intervento che possono risultare di beneficio sia per la persona affetta da demenza, sia per i familiari, sia per gli operatori che si fanno carico di tali situazioni. Ci sono realtà che già incarnano questo spirito di libertà ed autonomia, per cui risultano già su un percorso ben avviato, per altre c’è ancora molto lavoro da fare.

7. Il personale sanitario è formato adeguatamente per sostenere l’anziano affetto da Alzheimer con il metodo Montessori?
Il vecchio detto che “non si è mai profeti in patria” penso calzi a pennello per Maria Montessori. Questa famosa pedagogista ha avuto grandi lodi in tutto il mondo tranne in Italia. Credo che solo ora si stia riprendendo un po’ di adeguata stima nei suoi confronti, ma siamo ormai oltre gli anni 2000. Credo pertanto che si sia perso del tempo prezioso che sarebbe stato più utile utilizzare per sensibilizzare maggiormente le persone, perché il metodo Montessori è prima di tutto un pensiero di vita. Quindi, tornando alla sua domanda, io credo che non ci sia ancora personale adeguatamente formato al metodo Montessori nella misura in cui non è stato dato uno spazio giusto al metodo in diversi campi dell’educazione. Inoltre, non ho trovato fonti letterarie che abbiano messo insieme Demenza, Retrogenesi e Montessori come ho tentato di fare in questo lavoro, per cui penso che il mio libro possa essere solo un punto di partenza, una possibile strada alternativa percorribile, nella consapevolezza che non sia una risposta totalizzante ma una base da cui partire. Il personale va formato.

8. Passiamo tutta la vita ad imparare, ma la maggior parte delle cose che impariamo le dimentichiamo e teniamo solo quelle essenziali…con la demenza che cosa si dimentica maggiormente?
I ricordi del passato recente scompaiono e risulta compromesso il funzionamento della memoria ma, come dice lei, “teniamo solo quelle essenziali”, per cui la domanda che dobbiamo farci è “che cos’è essenziale”? Per ciascuno di noi “essenziale” è una cosa diversa, ma sono soprattutto le emozioni che proviamo che ci aiutano e che riusciamo a riconoscere. Il fatto che un gesto possa farci stare bene è un’esperienza che non si dimentica e diventa un utile strumento per poter entrare in relazione. Anche se poi si verifica un disorientamento a livello spaziale e temporale, quell’”essenziale” è rappresentato dalle emozioni che possono essere percepite e che restano. Io posso dimenticare il nome di un mio famigliare, non ricordare che cosa ho fatto poco tempo prima, chi sia la persona accanto a me, ma l’emozione di serenità o il fatto che una certa azione o situazione mi faccia star bene è qualcosa che riesco a percepire anche nelle fasi avanzate della malattia ed è giusto mantenere.

9. Il metodo Montessori può’ essere applicato anche in caso di demenza senile precoce, cioè anche quando il paziente non è cosi anziano?
La malattia di Alzhaimer colpisce generalmente persone che hanno superato i 65 anni, ma non è raro che ci siano casi di persone più giovani e le loro esigenze sono diverse rispetto ad una persona con un’età più avanzata. Chi è più giovane è maggiormente consapevole delle proprie difficoltà e pertanto le stesse aspettative, ma anche le frustrazioni, risultano più forti. I bisogni di autonomia e di libertà sono diversi, così come le prestazioni. Come ho spesso ribadito, questo non è un metodo passepartout e se ce ne fosse uno forse sarebbe il caso di dubitarne. Io credo si debba valutare di volta in volta quale sia la situazione e quali le esigenze, attraverso il grado di compromissione che la persona presenta, ma soprattutto attraverso quali abilità sono conservate per poter permettere un mantenimento di queste e del benessere della persona.

10. Perché il metodo Montessori è ancora poco usato in Italia, nelle scuole, a tuo avviso?
Montessori parlava di libertà e di autonomia al fine della costruzione di una vera indipendenza del bambino. Questo metodo punta alla socializzazione. In molti stati esteri è ben conosciuto e molte realtà si rifanno a questo metodo. C’è stato un momento storico in cui Montessori in Italia ha conosciuto fama e gloria ma poi è stata trascurata. Ai giorni nostri credo che ci sia ancora un certo retaggio rispetto all’idea stessa del metodo, perché prevale un’idea di omologazione piuttosto che di differenziazione delle competenze. Non si riesce a rispondere adeguatamente ai bisogni singoli ma risulta più semplice dare una risposta complessiva, che, in quanto tale, non può essere la risposta giusta, visto che ogni bambino è diverso così come lo è ogni adulto e ogni anziano affetto da demenza.

11. Con i modelli familiari attuali, è possibile un inserimento dell’anziano “malato”, nella società e magari nel suo nucleo d’origine, oppure meglio una struttura di sostegno? 
Ogni famiglia è diversa, con esigenze e situazioni molto particolari, per cui diventa difficile generalizzare. Statisticamente sono spesso le mogli le prime caregiver dei mariti malati, per poi passare ai figli, spesso donne. Anche in questo caso, a livello sociale, si riscontra ancora una presa in carico maggiore da parte della donna rispetto all’uomo. Inoltre, oggi le famiglie sono impegnate professionalmente, senza una rete di persone a loro accanto e spesso i servizi mancano anche per l’infanzia, per cui pensare che dei figli si facciano carico anche dei propri genitori anziani in casa non è sempre una scelta percorribile a livello economico, emotivo, ma soprattutto assistenziale. La possibilità di restare nella propria casa – dove si è vissuti e si sono conservati gli affetti di una vita – dovrebbe essere la scelta percorribile nella maggioranza dei casi, magari sostenendo questa permanenza attraverso l’aiuto di una persona esterna, che tuttavia non è sempre accettato dall’anziano e non sempre è gestibile con il progredire della malattia. Attualmente anche in Italia si assistono ad interessanti progetti di cohousing per persone anziane che, ancora nel pieno delle loro competenze, scelgono di poter mantenere la loro privacy ed autonomia in un contesto di maggiore sicurezza e tutela fino al progredire della malattia, per poi arrivare a strutture di sostegno mirate.

12. C’è un rapportarsi al paziente anziano, con poco rispetto secondo te della persona, come si può ritornare ad avere strutture e personale sanitario attente più’ ai pazienti che alle patologie?
Il pensiero di oggi rispetto al tema della demenza è cresciuto in esperienza rispetto al passato. Dal punto di vista dell’assistenza siamo passati da un modello prettamente medico, degli anni ‘50, dove esisteva la malattia che prevedeva una cura o la prevenzione, poi siamo passati negli anni ‘70 ad un’idea diversa: la visione era più quella della disabilità, del deficit, per cui la riabilitazione e la compensazione diventavano le strategie più in voga. Ad oggi, invece, i modelli sono più di tipo psicosociale, rivolti alle persone più che alla malattia in sé, con l’obiettivo di lavorare più sul vero supporto alla persona come individuo. Questo significa che non si accantona la malattia ma si guarda alla persona. Rogers, Erikson, Kitwood (pensiamo al suo modello CCP ovvero alla “cura centrata sulla persona”), sono solo alcuni dei precursori di un modello che va verso la persona come individuo piuttosto che concentrarsi sulla malattia. Insomma, la demenza è molto di più una compromissione neurologica e credo che questa nuova visione d’insieme si stia facendo strada e che molte realtà e professionisti stiano andando verso questa direzione. 

13. Nel tuo libro fai rifermento a pazienti con i quali hai lavorato direttamente, incontrare c’è qualcuno che ti ha particolarmente colpita e perché?
Ce ne sono stati molti, ma sicuramente il primo paziente con cui mi sono relazionata è quello di cui parlo nel libro, proprio all’inizio. È stata un’esperienza molto forte e sotto certi aspetti dolorosa. Trovarsi a che fare con un essere umano che ha sofferto così tanto nella sua vita, che ha passato la sua intera esistenza all’interno di un ospedale psichiatrico fin dall’infanzia, credo che rappresenti un’esperienza che non si può dimenticare. Quello rappresentava il fallimento della cura, del sostegno dell’essere umano.

14. In un mondo che va di fretta, siamo capaci di prenderci "cura” veramente di qualcuno o abbiamo perso questo significato?
È difficile, ma i bambini e gli anziani ce lo insegnano di continuo. Sta a noi saperlo cogliere. Ciò che è essenziale dovrebbe rappresentare il centro della nostra vita, mentre il più delle volte siamo alla ricerca di ciò che non lo è. “Gioca con me mamma”, oppure “leggimi una storia”, sono richieste di attenzione e di un bisogno di tempo di qualità da trascorrere insieme che non vanno trascurate. Anche piccole e semplici domande da porre all’anziano possono indurlo ad aprirsi all’ascolto e questo rappresenta quell’essenziale a cui dobbiamo tornare.

15. Che progetti intendi sviluppare con questo tuo lavoro?
Questa è una goccia, ma come ogni goccia lascia un segno e può allargarsi. Spero di potere far conoscere il più possibile questo pensiero che permette una nuova visione di cura. Una persona che acquisisce un modello di aiuto verso l’altro può diventare lei stessa promotrice del cambiamento, sia che si tratti di una famiglia che di una struttura oppure di un servizio territoriale. In questo momento questo libro rappresenta questo tentativo e questa speranza.

Anita Avoncelli

domenica 22 settembre 2019

Smartwatch gli salva la vita: chiama i soccorsi mentre lui è incosciente a rilevato l’anomalia e richiesto l’intervento dell’ambulanza di Alessio Lana

Stava morendo ma lo smartwatch gli ha salvato la vita. A raccontare la storia è il figlio del protagonista dell’incidente, Gabe Burdett, che l’ha condivisa su Facebook. La scorsa domenica l’uomo stava aspettando il padre per andare a fare un giro in bicicletta ma al posto del genitore gli è venuto incontro un sms che chiedeva aiuto. «Bob Burdett ha avuto una brutta caduta» si leggeva nel messaggio corredato anche da una mappa che indicava il luogo esatto dell’incidente.

Merito dello smartwatch
Come racconta Gabe, il padre stava pedalando nel Riverside State Park di Spokane, negli Stati Uniti, quando la bicicletta si è ribaltata. L’uomo è rovinato a terra battendo la testa ed è rimasto incosciente. Impossibile per lui chiedere aiuto ma ci ha pensato lo smartwatch, nello specifico un Apple Watch serie 4. Oltre ad avvertire i due figli di Burdett, il dispositivo ha mandato una richiesta di soccorso anche al 911, il 118 statunitense, con tanto di posizione rilevata dal Gps. I soccorsi sono intervenuti in meno di mezz’ora e così, oggi, Bob sta bene. Ha ancora qualche ferita alla testa ma è fuori pericolo.

Cose da uomini che le donne non capiscono di Mirko Spelta

«Chissà perché gli uomini sbagliati capitano tutti a me?». Se avessi un euro per ogni volta che nella vita ho sentito una donna pronunciare una frase del genere, ora potrei permettermi di fare quello che ho sempre sognato: stare tutto il giorno in costume, al mare. Invece eccomi qua, a cercare di capire. Non sono uno psicologo, un sociologo o uno studioso della mente umana. Sono un uomo di 43 anni — e un avvocato, ma questo è secondario — che come qualsiasi altro ha avuto la fortuna (quasi sempre) e la sfortuna (qualche volta) di relazionarsi con il mondo femminile. Ascoltando e imparando dalle mie e dalle altrui esperienze, ho tratto alcune considerazioni.
Capirsi è la parola chiave, il vero segreto della longevità della coppia felice. E visto che, se aspettiamo che siano gli uomini (me compreso) a capire le donne allora buonanotte ai suonatori, quello che possiamo fare è cercare di spiegare senza mezzi termini alle donne come sono fatti questi benedetti uomini. Un uomo è semplicemente un uomo e va preso così com’è. Non è il principe azzurro, non è il cavaliere senza macchia che vi capisce al primo sguardo. Anche quello più sveglio, non sarà mai la materializzazione di quell’ideale che ogni donna ha creato nella propria testa. Non ne sarà mai all’altezza. Più di una volta ho sentito dire, di solito da donne vicino ai 40: «Ho smesso da un pezzo di cercare l’uomo giusto». Paradossalmente, le donne che hanno smesso di cercare l’uomo giusto sono proprio quelle che l’hanno trovato, sono quelle che dal sogno sono scese sulla terra. Certo, non tutti sono uguali, qualcuno vi assomiglierà di più e qualcun altro meno, qualcuno vi capirà di più e qualcun altro meno, qualcuno vi stimolerà di più e moltissimi altri meno. Ma nessuno sarà mai perfetto. Questo non giustifica la generale sfiducia nei rapporti di coppia, semplicemente perché di uomini pronti a guardarvi come se non ci fossero altre donne al mondo ce n’è sempre uno più vicino di quanto pensiate. Questi uomini, a differenza dell’uomo giusto, esistono eccome, e sono quelli veramente innamorati.
«Ma che belle scarpe!»
Gli uomini sono esseri semplici, semplicissimi. Un uomo non ha un «modo» in cui ti guarda: o ti guarda o non ti guarda. Un ragionamento tipo: «Lui mi ha chiesto il numero di telefono e io gliel’ho dato, ma forse troppo presto o forse troppo tardi, forse sono stata troppo aggressiva e gli ho messo paura o forse sono stata troppo restia, avrà capito che non sono interessata e quindi non mi chiama… e adesso cosa faccio? Se lo chiamo sembro sfacciata; allora aspetto. E se non chiama? Perché non chiama? Oddio, panico!» non farà mai parte della mente di un maschio. O vi chiama o non vi chiama. Punto.
La semplicità degli uomini si riflette soprattutto sul fronte della comunicazione. Le donne comunicano molto bene sul piano verbale e non verbale e hanno una intelligenza emotiva enormemente più sviluppata di quella del maschio. Sta di fatto che se raccontiamo una bugia ad una donna e lei ci crede, o aveva già deciso di crederci oppure, in cuor suo, ci ha già perdonato. Se no, una donna non la freghi. L’uomo invece ha una capacità di decodificare i gesti, le espressioni del viso, i toni della voce estremamente più limitata. Comprende molto meglio le parole di quanto non comprenda i gesti o le espressioni del volto ed è decisamente più interessato al messaggio in sé che al modo di veicolarlo. Ho sentito donne interrogarsi a lungo su cosa potessero significare i tre puntini di sospensione alla fine di un messaggio o su «cosa avrà voluto dirmi». Ebbene, la vera verità è: niente. Quello che vuole dire, di solito, è esattamente quello che ha detto e solo quello che ha detto, niente di più e niente di meno. Uomini e donne parlano in modo diverso, pensano e capiscono in modo diverso. La stessa cosa, la stessa situazione, persino la stessa frase se esce dalla bocca di un uomo o di una donna spesso ha due significati differenti. Se una donna dice a un’altra: «Ma che belle scarpe!», la frase completa è: «Ma che belle scarpe, dove le hai comprate, le voglio anch’io». Se un uomo dice a una donna: «Ma che belle scarpe!», il più delle volte la frase completa è: «Ma che belle scarpe, staresti bene solo con quelle addosso». Questa differenza può creare notevolissimi problemi di comprensione reciproca, perché se volete davvero farvi capire da un uomo dovete mettervi in testa che non siete davanti a un’altra donna, ma a un soggetto diverso: quasi come se foste davanti a uno straniero che parla un’altra lingua. Se vi ostinate a parlargli nella vostra, potrà anche non capirvi. E non è colpa sua, è assolutamente normale, è fatto così.
Venti chilometri più avanti
Le donne si guardano, e molto: a volte si fanno reciprocamente una specie di check up in due secondi: dalla testa ai piedi poi di nuovo su, dai piedi alla testa. Tipo risonanza magnetica. Alle donne piace un’altra donna quando è elegante, discreta, fine. Quelle che invece esibiscono una femminilità un po’ troppo esplicita, quelle dalla bellezza appariscente, alle donne tendenzialmente non piacciono. Per gli uomini il discorso è un tantino diverso. L’eccessiva sobrietà, l’essere troppo fine e graziosa, tendenzialmente fa colare l’eros a picco come il Titanic. La bellezza volgare eccita. E il concetto maschile di volgarità applicata alla femminilità, cioè il limite oltre il quale l’uomo avverte l’esagerazione, e quindi oltre il quale l’effetto diventa negativo, è spostato mediamente venti chilometri più avanti del vostro.
Ciò che una donna considera già volgare, nel novanta per cento dei casi è considerato sexy da un uomo. Pertanto non fate l’errore di chiedere consigli su cosa è sexy e cosa no a un’altra donna. Piuttosto chiedetelo a un uomo, perché lui non soltanto lo sa per istinto, ma sarà di sicuro sempre sincero (gli uomini in certi casi non ce la fanno proprio a trattenersi). La sessualità maschile era ed è rimasta di tipo visivo. In un uomo l’attrazione fisica immediata inizia a cinquanta metri di distanza da una donna, quindi non può avere nulla a che fare con il temperamento. Per un uomo non c’è alcuna correlazione fra l’intelligenza femminile e il desiderio sessuale, né in senso positivo, né in senso negativo: sono due cose che non c’entrano nulla. Moltissime donne mi hanno detto che se si trovassero a cena con l’uomo più bello del mondo e si dovessero accorgere che è un completo cretino, la probabilità che ognuno dorma a casa propria sarebbe altissima. L’uomo tendenzialmente non funziona così: ovvero è più che probabile che nella situazione uguale e contraria un maschio voglia comunque tentare di concludere anche se con la peggior oca patentata, con la quale fuori dal letto non avrà nulla in comune.
Con passo deciso verso la sua scrivania
Un pazzesco e deleterio luogo comune è quello legato all’iniziativa femminile: una donna che prende l’iniziativa, sia in termini di approccio che sessuale, rischia di avere una scarsa considerazione nella mente maschile. Tutte frottole. Ma, se decidete di farlo, fate attenzione: ciò che a voi sembra già molto esplicito per l’uomo medio potrebbe non esserlo affatto. Quindi provateci, provateci senza ritegno. Dirigetevi dritte alla sua scrivania, guardatelo negli occhi e invitatelo fuori a cena. Senza paura. Cosa succede in questo caso nella testa di un uomo?
L’uomo è lento e avrà bisogno di qualche istante per metabolizzare. Tenete duro e non spaventatevi perché passato il primo momento e l’effetto sorpresa, se ha anche un minimo di interesse per voi (ma si potrebbe dire anche se non ci ha mai pensato prima ma gli andate comunque a genio) avrete ciò che volete. La storia dell’uomo intimidito dall’iniziativa femminile è una sciocchezza. Un uomo che non ha problemi con la propria integrità psicologica e sessuale è tutt’al più divertito dall’essere per una volta preda, anzi, la cosa è anche piuttosto eccitante, direi quasi irresistibile. E anche nel caso in cui la cosa non vada in porto, l’uomo declinerà comunque con un sorriso, con la felice consapevolezza di essere stato voluto, cercato, desiderato ed è una cosa che non capita tutti i giorni e che da un lato rallegra l’umore e ben dispone, dall’altro, cosa assai più importante, scatena comunque l’ammirazione nei vostri confronti per avere avuto il coraggio di farvi avanti.
Sono tempi, questi, di grande sfiducia verso il sesso opposto, in cui si fa fatica a chiudere gli occhi e buttarsi, tempi in cui, scottati dalle storie andate male, ci si avvicina o riavvicina all’amore con diffidenza, e dando di noi solo quel tanto che basta per non soffrire in caso di ulteriore fallimento. La verità è che lasciarci andare fa paura, amare fa paura, l’idea di appartenere a qualcuno ci terrorizza e la prospettiva di essere felici ancora di più. Abbiamo preso delle batoste, abbiamo affrontato dei fallimenti e abbiamo sofferto. E allora? Quante volte abbiamo fatto un colloquio e ci hanno risposto «le faremo sapere»? Quante volte abbiamo cambiato casa, città, amici? E però le cose nella vita non vengono quasi mai da sole. Perciò prendiamo il coraggio a quattro mani e lasciamoci andare, lasciamoci prendere.

lunedì 19 agosto 2019

FOTOGRAFIA: Album n.39 (149 scatti)


















Giovanni Pitarresi

Federico Pitarresi

mamma

Carla

Carla, Daniele e Melissa

prima fila: Giovanni, Santo, mamma, Roberto
seconda fila: Federico, Guido, Maurizio, Gianfranco, Giorgio

Barbara, Rosalia, Carmela, Margherita, mamma, Rosy, Mimma e Antonella


79esimo compleanno di mamma

Dr. Di Peri Giuseppe

targa ricordo per le 100 donazioni di Giuseppe Prestifilippo

equipe del centro trasfusionale di Villa Sofia con Giuseppe Prestifilippo

amici di Giuseppe Prestifilippo

equipe del centro trasfusionale di Villa Sofia con Giuseppe Prestifilippo