domenica 1 aprile 2018

RACCONTI: Un padre severo di Giorgio Pitarresi - gfp



La severità di mio padre era conosciuta in tutta la borgata, d’altronde negli anni ‘60 non era facile crescere 9 figli maschi; c’era il rischio che qualcuno di noi fratelli potesse prendere una brutta strada. Cosi siamo stati allevati con il timore di essere presi a bastonate.
Ma forse questo metodo ci ha inculcato valori sani e rispetto per il prossimo.
Io, essendo il più grande dei nove, sono stato il più penalizzato. Ero il primo a prenderle, sia perché per primo incappavo negli errori che la vita ci propinava sia perché la mia punizione doveva servire da esempio per gli altri, ed in questo mio padre, devo dire la verità, ha raggiunto il suo scopo.
Dei nove solo due non hanno avuto la fortuna di trovare un lavoro negli enti pubblici. Ma mano che passavano gli anni diventava sempre più difficile trovare una mansione nelle pubbliche amministrazioni senza avere un adeguato titolo di studio. Quando qualcuno di noi non andava bene a scuola, mio padre decideva di mandarlo a zappare, letteralmente. Anche io ho zappato la terra. Ricordo, un episodio per tutti: all’età di 8 anni, mio padre mi portava con sé ad irrigare i terreni ereditati da mia madre. La sveglia era puntata per le due di notte, il guardiano dell’acqua  apriva una zappa e ½ d’acqua e la canalizzava verso le nostre proprietà. Si incominciava prestissimo perché di giorno il sole caldo dell’estate faceva evaporare la preziosa risorsa. Nel periodo scolastico la routine era sempre la stessa; di mattina a scuola e tutti i pomeriggi a lavorare in campagna come factotum di tutti i servizi possibili ed immaginabili. Posso dire con sincerità, che la mia infanzia è passata a fare la balia ai miei fratelli più piccoli ed  a lavorare la terra, e mi rimaneva poco tempo per giocare con i miei coetanei, anche perché fino all’età di 10 anni ho dovuto portare una benda nell’unico occhio vedente per sforzare il destro, pigro dalla nascita.
Nell’estate del ‘69, conseguita la terza media, trovai lavoro come “bombolaro”; consegnavo a domicilio le bombole per cucinare. La paga era di ventimila lire alla settimana, pochissimo, ma per mio padre andavano bene, perché il lavoro mi teneva occupato e così non prendevo vizi, oziando. Le mance erano buone, a volte raggiungevo anche le diecimila lire a settimana che metodicamente mettevo da parte per comprarmi una bicicletta usata che avevo adocchiato da Don Pippo, un bravo biciclettista all’antica, nel senso che faceva tutto lui. Con tornio e saldature era un re. Ci passavo tutti  i giorni perché mi veniva di passaggio e perché vedevo nascere biciclette da ferri vecchi. Un giorno Don Pippo mi fece vedere una bici che stava assemblando e, ricordo benissimo, me l’avrebbe venduta per quarantamila lire. Già ne avevo venticinque messi da parte, la differenza la chiesi a mio padre. Qui ebbi la prima delusione da chi mi aveva dato la vita. Un no secco, dovevo togliermi dalla testa l’idea di possedere una bici, solo no, senza motivo. Ma io ero troppo preso ed eccitato dall’idea di cavalcare quel “ferro” e dopo tre settimane mi ripresentai da Don Pippo con i soldi e feci in piena autonomia il primo acquisto della mia vita. Ero felice di correre con la mia bici, lo facevo nel primo pomeriggio quando mio padre dormiva per riposarsi dal duro lavoro in campagna, cercando di recuperare le energie per guidare il bus per 9 ore filate sino all’una di notte. Tutti i giorni, non vedevo l’ora che mio padre, dopo pranzo andasse a dormire. Mia madre era custode del mio segreto. Facevo sali e scendi, per tutta l’arteria principale della mia borgata, con la mia bici usata, fino a quando non si avvicinava l’orario del risveglio di mio padre. Ma un giorno, mentre scendevo a tutta velocità, vidi mio padre davanti alla porta che mi aspettava, evidentemente gli era arrivata la soffiata che suo figlio “u granni” faceva le scorribande con quel trabiccolo.
Non appena lo vidi in lontananza incominciai a piangere, sapevo cosa mi aspettava. Ma quello che successe andò oltre la mia immaginazione. Mi disse con voce ferma e decisa di fermarmi, mi fece scendere, prese la bicicletta e incominciò a lanciarla contro il muro, in aria. Con il suo peso salì sulle ruote rompendo tutti i raggi, deformò la forcella e telaio.
Dopo questa sfuriata la bici era ritornata un ammasso di ferro e come tale mio padre la consegnò a Don Pippo non chiedendo nulla in cambio.  


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